di Isa Grassano


 

“Puoi portare un Lucano fuori dalla Basilicata, ma non puoi portare la Basilicata fuori da un Lucano”

È da sempre il mio motto, perché nonostante da anni viva a Bologna e viaggi in giro per il mondo, mantengo una visione lucanocentrica della vita. Un po’ come diceva Leonardo Sinisgalli quando affermava che “lucano si nasce e si resta”. Ovunque si viva. Come dargli torto?

Le mie radici sono a San Mauro Forte, borgo autentico di Italia, che domina la valle del torrente Salandrella. Uno di quei paesi che sembra uscito direttamente dalle immagini in bianco e nero degli anni Cinquanta, tenuto in ordine quasi fosse un salotto. Ogni volta che ci torno mi sento protetta e smarrita allo stesso tempo. Le strade sono corridoi lungo i quali s’affacciano numerosi palazzi baronali, quel che rimane delle famiglie nobili che qui hanno dimorato tra il Settecento e l’Ottocento. Occorre camminare con lo sguardo all’insù per cogliere le meraviglie dei portali in pietra e dei fregi floreali, a testimonianza del rapporto che i proprietari ebbero con la cultura napoletana.

Un tempo si chiamava solo San Mauro, l’appellativo “Forte” fu aggiunto dopo che la popolazione respinse con forza e coraggio l’attacco dei briganti dell’ufficiale spagnolo Borjes. Era il 1864 ma l’eco di quell’avvenimento risuona ancora nell’orgoglio di ogni cittadino e anche nel mio. Ricordo quando studiai Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi e tra le prime pagine lessi:

“A San Mauro Forte, poco più in alto sul monte, avrei ancora veduto all’ingresso del paese, i pali a cui furono infisse per anni le teste dei briganti”.

Certo la scena, a pensarci bene, era raccapricciante, ma quel gesto voleva essere un monito, oltre che un trofeo. Quanti flashback che si aprono nella mia mente quando ripenso al passato. Mi rivedo ancora bambina giocare in piazza Caduti della Patria, all’ombra della Torre Normanna, dalla forma circolare e a tre piani con la sua base poligonale, luogo di leggende e fantasmi, come quello della Mezza Signora che pare albergasse in questo torrione, pronta a punire le nostre eventuali marachelle. Oggi ristrutturata, è il simbolo del paese – domina piazza Caduti per la Patria – visitabile su richiesta al Comune. Al suo interno ci sono riproduzioni 3D ma la vera bellezza è la terrazza belvedere che apre sulle immense distese di uliveti circostanti. Da quassù ammiro i calanchi (particolari forme di erosione innescate dall’azione combinata del sole e dell’acqua piovana) come se fosse un mare in pietra dai colori che creano giochi di ombre e di luci e, quando sono fortunata, anche il volo di un falco o di un nibbio reale.

Una volta fuori, consiglio un giro tra le strette e ripide stradine del centro storico, con le piazzette che si aprono all’improvviso come stanze di un labirinto, in cui spesso giocavamo a nascondino e l’eco del nostro “tana libera tutti” sembra ancora risuonare lungo le vie silenziose e le case vuote. Non prima di aver fatto un salto nell’adiacente Chiesa Madre che più volte mi ha visto da ragazzina seduta tra i banchi a cantare nel coro e di aver visitato palazzo Arcieri Bitonti trasformato in museo. Le sale espositive multimediali, con video proiettori e schermi touchscreen, si sviluppano nella vecchia stalla e nella rimessa per le carrozze e raccontano la storia e gli ospiti illustri che da qui sono passati, mentre l’adiacente corte è sede di eventi e concerti.

Mi piace passeggiare nel centro storico sotto lo sguardo “attento” di qualche anziano, seduto sull’uscio della propria casa, che si domanda e mi domanda tutte le volte “a chi appartengo”. Osservo i loro capelli bianchi e il volto scolpito dal tempo e non posso che emozionarmi, mentre al Museo della Civiltà Contadina e degli antichi Mestieri rivivo la loro vita lavorativa. Mi piace osservare i dettagli come i mascheroni qua e là o le sculture in pietra che reggono lo stemma gentilizio del portale barocco di Palazzo Lauria.

E passo dopo passo, arrivo a Porta Piazzile, l’unica porta che rimane tra le tre principali, oltre a porte minori, che permettevano l’ingresso all’interno delle mura perimetrali. Anche qui il paesaggio sulla vallata infonde quel senso di intatto e sconfinato, mentre il vento che si fa sempre sentire in questo punto mi scompiglia la messa in piega e insieme i pensieri. Ogni volta, in questo punto, sento un pizzico di nostalgia per quel che ho dovuto lasciare. Questione di minuti però, perché non si lascia mai davvero la casa natia quando la porti nel cuore. E io porto nel cuore ogni cosa di questa terra. Anzi, la terra diventa un motivo di vanto, tanto che sono solita ripetere che il Governatore della Basilicata dovrebbe conferirmi una nomina di ambasciatrice universale della Regione. Con tutti, con i miei articoli e i miei libri ne decanto le lodi e la bellezza.

E c’è un’altra curiosità. Il mio paesino custodisce, all’interno della Chiesa del Monastero, il Cristo alla colonna di Angelo Bizamano, con il volto di Gesù ben tornito e i lunghi capelli ondulati, l’unica opera firmata dal pittore di Creta nell’Italia meridionale. Per me, se mai ce ne fosse bisogno, un altro motivo di vanto.